Come può rinascere una classe dirigente

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Gira e rigira il problema è sempre lo stesso. I soldi ci sono, gli strumenti pure, e quello che manca è la capacità di usarli con efficacia per il fine, da tutti indicato come prioritario, della crescita. Più si scava nelle ragioni della nostra depressione – economica, morale, psicologica – e più appare chiaro che si è persa la capacità di fare. Scavando un altro po’ viene in superficie che a volte più che d’incapacità si può ben parlare d’impossibilità ad agire per norme che si accavallano e contraddicono, permessi e dinieghi, spinte e frenate, interventi a gamba tesa di taluni tribunali amministrativi e pubblici ministeri, demotivazione e conseguente caduta di ogni forma di responsabilità. Insomma, lo stallo nel quale è caduto il paese e con ancor più evidenza il Mezzogiorno è più forte della buona volontà. Da qui lo scetticismo e la poca fiducia che accompagnano la gran parte delle azioni che pure si compiono, ma più per dovere di firma che per convinzione. Come se già si sapesse che impegnarsi non servirà a nulla. Abbiamo perso la sensazione collettiva che cambiare, in meglio, si può; che se si modificano certi comportamenti e si comincia a credere in quello che si fa e che fanno gli altri è possibile che il miracolo si compia e si riesca a raggiungere qualche apprezzabile risultato. Piccoli successi condurranno a successi grandi. Naturalmente questo processo rivitalizzante non può compiersi da solo. Avrà bisogno di persone e istituzioni decise a usare le proprie abilità per costruire e non distruggere, collaborare e non litigare, competere e non colludere. Il problema, in questi casi, è trovare chi si decida a compiere il primo passo. Per questo c’è bisogno che si renda disponibile all’esperimento un gruppo sufficientemente ampio di soggetti disposti a mettere da parte gli egoismi che portano al nulla attuale per un’azione collettiva rivolta a quello che con formula usurata si chiama bene comune. Chissà che non possa rinascere una classe dirigente.

di Alfonso Ruffo