Il caso Denaro

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Dunque mi trovo a dover dare una spiegazione a chi vorrà seguire con spirito sereno e mancanza di pregiudizio la vicenda giudiziaria che in questi giorni mi ha colpito. Come sa chi legge i giornali, ascolta la tv o segue i social network la Procura di Napoli, dietro indagine della Guardia di Finanza, mi accusa di aver condotto la cooperativa Edizioni del Mediterraneo che per anni ha editato la testata il Denaro impedendo che si svolgesse al suo interno una vita associativa democratica. Nella mia qualità di amministratore unico, carica alla quale ero regolarmente eletto, avrei impedito il normale svolgimento delle assemblee violando secondo gli inquirenti uno dei principi cardine del sistema cooperativistico e mettendo quindi in atto una simulazione. Ne consegue, secondo questa linea di pensiero, che i contributi ricevuti dalla Edizioni del Mediterraneo nel periodo dell’accertamento non erano dovuti. Di qui la richiesta di restituzione e il provvedimento di sequestro cautelativo su tutti i miei beni, mobili e immobili, che poi non sono una gran cosa. Ora io non mi riconosco affatto nella condotta che mi viene attribuita. Ritengo di aver gestito la cooperativa nel pieno rispetto delle leggi e in totale conformità con quanto richiesto dalle normative di settore. Il punto nodale del contendere è tutto qui. I finanziamenti ricevuti dalla presidenza del Consiglio erano sì adoperati per gli scopi tipici dell’attività editoriale – stipendi, carta, stampa, diffusione (e d’altra parte il giornale prodotto era sotto gli occhi di tutti) – ma attraverso un veicolo, la cooperativa appunto, ritenuto falso da chi indaga perché privo del requisito del sufficiente gioco democratico e perfettamente legittimo da chi scrive. Un bel rebus da risolvere anche perché chi mastica di giornalismo sa che le decisioni cruciali le assume il direttore responsabile ed è in questa veste che io ho agito nella stragrande maggioranza dei casi. E, sì, la doppia veste di direttore e amministratore mi dava ampi poteri che ho comunque sempre esercitato con coscienza e nei limiti delle deleghe ricevute. Tutto questo sarà oggetto di dibattito nel processo, com’è giusto che sia, e prenderà il tempo che ci vuole. Nel frattempo non è possibile impedire lo sciacallaggio di chi campa sulle disgrazie altrui e ne gode, motivo principale della nostra arretratezza economica e culturale. Senza nemmeno che sia avviato il procedimento giudiziario, c’è chi già emette la condanna. Al di là delle chiacchiere sui tre gradi di giudizio e sulle garanzie riservate al cittadino inquisito finché non giunge la sentenza definitiva, la sola accusa basta e avanza per provocare conseguenze disastrose personali, familiari, professionali, imprenditoriali, patrimoniali come chi scrive può testimoniare per esperienza fresca e diretta. Il danno che questa vicenda mi poteva arrecare l’ho già scontato tutto. E chi vive del suo buon nome può comprendermi meglio di altri. Ho dovuto rinunciare a occasioni di lavoro che mi sono conquistato con forza e determinazione come se il mio stato di delinquente fosse stato già accertato. Calpestato il passato, mi si vorrebbe negare il futuro. Mi danno grande gioia e conforto le testimonianze di stima, amicizia e affetto che ricevo ogni minuto che passa da chi mi ha conosciuto, ha con me lavorato, e forse apprezza l’impegno la dedizione l’amore che ho sempre messo per me e per gli altri nello svolgimento del mestiere più bello e difficile del mondo.

di Alfonso Ruffo