L’inevitabile dialogo tra sordi che caratterizza i colloqui tra il governo greco e la Banca centrale europea porta la discussione sull’unico piano legittimato a servire la causa di un eventuale accordo: quello politico. Le ragioni dell’uno e quelle dell’altra si fronteggiano infatti senza alcuna possibilità di venirsi incontro. Le prime sono espressione della politica, di un popolo; le seconde della tecnica, di un’istituzione burocratica. Entrambi i contendenti svolgono il loro mestiere: chi chiede condizioni di favore nel rimborso dei debiti e chi le nega agiscono secondo il mandato ricevuto e non potrebbero fare altrimenti senza tradirlo. A esprimersi dovrebbe essere il Parlamento Europeo, in rappresentanza dell’Unione dei popoli, che potrebbe acquistare una centralità mai avuta proprio in funzione degli intricati nodi da sciogliere. Un primo assaggio di quali potranno essere le volontà dei paesi che adottano l’euro e sottostanno al suo signoraggio si potrà avere con il Consiglio europeo (ministri dell’economia e della finanza) del prossimo 12 febbraio. I bracci operativi dei singoli Parlamenti nazionali dovranno stabilire come se e comporre un puzzle che sembra non avere le tessere a posto e quindi in apparenza senza soluzione. A meno che, appunto, la politica non faccia il suo mestiere. Il mestiere della politica, a Bruxelles come a Roma come a Napoli, dovrebbe essere quello di individuare i fini e apprestare i mezzi, gli strumenti, utili a raggiungerli. Senza fini, i mezzi perdono di significato. Il problema, al centro del Continente e delle sue numerose periferie, è che si è persa l’intelligenza dei fini lasciando ai mezzi il disbrigo di pratiche che non sono alla loro portata né per missione né per legittimazione. In assenza di chiare intenzioni e palesi volontà comuni e precise regole d’ingaggio – che rispecchino le diverse situazioni da affrontare, grandi e piccole – le lingue continueranno a imbrogliarsi in una nuova Babele.